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EMILIO MAGGINI

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Academic year: 2021

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IL LESSICO

DIALETTALE VITERBESE NELLE TESTIMONIANZE DI EMILIO MAGGINI

IL LESSICO

DIALETTALE VITERBESE

NELLE TESTIMONIANZE

DI EMILIO MAGGINI

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Il lessico dialettale viterbese nelle testimonianze di

Emilio Maggini



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© 2009 - Francesco Petroselli

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa con qualsiasi mezzo o in qualsiasi forma (fotomeccanica, elettronica, filmica) senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

REFERENZE FOTOGRAFICHE:

Archivio Banca di Viterbo: foto, p. 6

Archivio Famiglia Emilio Maggini: foto, pp. 97 - 179 - 273 - 305 - 347 - 409 - 529 - 625 Archivio Mauro Galeotti: foto, prima di copertina, pp.147 - 219 561

Archivio Francesco Petroselli: foto, pp. 447 Archivio Francesco Galli: foto, p. 595

Archivio Martin Harrebek: foto autore (1° risvolto di copertina).

Le foto si riferiscono alla vita di Emilio Maggini e ad alcuni aspetti del Quartiere di Pianosca- rano del secolo ventesimo.

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Premessa del Presidente Banca di Viterbo . . . . pag. 7

Presentazione del Prof. Corrado Grassi . . . . » 9

Introduzione . . . . » 11

Documenti etnolinguistici e folklorici . . . . » 37

Avvertenza al vocabolario dialettale . . . . » 89

Abbreviazioni . . . . » 95

Vocabolario dialettale viterbese . . . . » 99

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PREMESSA

È con vero entusiasmo e con malcelato orgoglio che, a nome della Banca di Viterbo Credito Cooperativo nella mia veste di Presidente, sono a presentare la pubblicazione del testo, da noi fortemente voluto, che ha per titolo “Il lessico dialettale viterbese nelle testimonianze di Emilio Maggini”.

Con tale realizzazione abbiamo inteso raggiungere un triplice risultato. In- nanzitutto quello di riscoprire e valorizzare - perché lo meritava - l’opera let- teraria di Emilio Maggini, già nostro socio/amministratore, ma soprattutto scrittore di grande spessore e umanità.

Devo subito precisare che il testo non deve essere inteso come un’an- tologia dell’opera del Maggini, ma rappresenta piuttosto uno studio appro- fondito ed una appassionata ricerca sulla sua attività letteraria, soprattutto nelle sue forme ed espressioni più arcaiche e linguisticamente più rilevanti.

In secondo luogo risulta essere un valido contributo al recupero del dialetto viterbese ricorrente nel mondo contadino del quartiere di Pianosca- rano.

Da ultimo con tale pubblicazione abbiamo voluto finalmente far co- noscere soprattutto ai viterbesi la validità della ricerca che da anni nel set- tore ha visto come esemplare protagonista il prof. Francesco Petroselli, studioso viterbese, oggi anche cittadino svedese, peraltro parente prossimo dello stesso Emilio Maggini.

L’autore, a cui mi lega da oltre 60 anni una vera amicizia e stima, ha saputo mettere in risalto il vero significato della cultura popolare dell’Alto Lazio con una dedizione che ci ha portato a riscoprire molti valori sociali di- menticati e addirittura negletti della nostra terra.

Nel quadro nazionale la provincia di Viterbo, dal punto di vista lingui- stico, costituisce infatti un’area scientificamente molto poco documentata fino ad oggi, ad eccezione di scarsi studi che per il loro contenuto hanno però destato l’interesse da parte dei maggiori specialisti italiani della mate- ria.

Pertanto la presente opera, che fortemente ha voluto la Banca di Vi- terbo nelle sue componenti tutte, oltre a costituire un riconoscimento sen-



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z’altro dovuto ad uno dei suoi soci, autentico scrittore viterbese, viene a col- mare almeno in parte una riprovevole lacuna delle conoscenze dialettologi- che e offre materiale utile per successivi studi e ricerche anche per le altre discipline, quali ad esempio la storia della lingua italiana.

Voglio terminare rivolgendomi alla memoria di Emilio Maggini, il quale rimane nei nostri più vivi ricordi, per un sincero sentimento di gratitudine, perché, a mo’ di aedo, con grande umiltà contadina ha riferito di giorno in giorno all’autore i propri sentimenti più veri, le usanze più arcaiche, le con- suetudini, i fatti e le circostanze della propria vita quotidiana attraverso il filtro della sua poetica ineguagliabile ispirazione.

Grazie, grazie, indimenticato poeta della nostra Viterbo e della nostra Banca!

LUIGIMANGANIELLO

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PRESENTAZIONE

Ho avuto in sorte la fortuna di seguire, non solo a distanza, le fasi successive dell’elaborazione del Dizionario di Francesco Petroselli, che viene ora presentato al pubblico. Come correlatore prima della sua tesi di dottorato e, successivamente, della libera docenza conseguite nell’Uni- versità di Göteborg, ambedue brillantemente superate, ho assistito alla progressiva maturazione del progetto di dotare la comunità viterbese di un archivio delle sue specificità linguistiche ed etnografiche, oggi in via di rapido mutamento, se non di estinzione totale. Grazie a quest’opera, Vi- terbo potrà d’ora in poi disporre di una sua “storia degli umili” minuzio- samente documentata e della messa in evidenza di vicende storiche, che nessuno storico ufficiale ha pensato di tracciare.

In questo delicato impegno, portato a termine grazie a un paziente lavoro di scavo durato decenni, Francesco Petroselli ha avuto la fortuna, da lui utilizzata appieno, di potersi valere delle preziosissime esperienze personali di Emilio Maggini, illustre cittadino viterbese, depositario dei saperi e delle minute vicende della sua piccola patria.

Il Dizionario di Francesco Petroselli non è un semplice, prezioso ar- chivio della parlata viterbese, documentata nella fase storica che potrebbe precedere la sua definitiva scomparsa, ma è un’opera che fa tesoro, sulla traccia lontana ma ben percepibile da parte dei professionisti, del mo- dello adottato in particolare dai grandi dizionari nazionali svizzeri, se- condo i quali non si può parlare di “parole”, se prima non si conoscono e non si sono praticate direttamente o almeno descritte le “cose”, che alle

“parole” corrispondono. In questo senso, il Dizionario di Francesco Pe- troselli si distingue da molti altri prodotti della lessicografia dialettale ita- liana, alla quale viene a portare un prezioso contributo metodologico, che mi auguro possa avere in futuro il successo che si merita.

CORRADOGRASSI

Professore Ordinario Emerito di Lingue Romanze nella Wirtschaftsuniversität di Vienna



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INTRODUZIONE

Come è avvenuto in tante altre città italiane, anche Viterbo vanta nel sec. XX una ricca tradizione locale di poeti in dialetto, dei quali Enrico Canevari (Viterbo 1861- 1947) è da considerarsi il più noto rappresentante. Appartenente ad una famiglia di estrazione borghese, dopo aver frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Roma, nel 1891 fu nominato insegnante nella Scuola professionale, diventandone direttore allor- ché questa fu trasformata in Scuola di Arti e mestieri fino al 1929, anno del suo pen- sionamento. Fu animatore della vita artistica e culturale dell’epoca, alternando all’insegnamento, un’attività varia e multiforme: fu artista, scrittore teatrale, direttore della filodrammatica S. Rosa, attore egli stesso e scenografo, poeta in vernacolo, in- terprete della società viterbese, tradizionalista e conservatrice.

I suoi componimenti più riusciti prendono ad argomento leggende “storiche” lo- cali, episodi biblici, personaggi tipici della sua città. Non a caso la sua raccolta, com- posta negli anni Trenta del secolo scorso, trae il titolo dalla giovane gentildonna Galiana, che incarna il mito di una municipalità consapevole e sdegnosa1. Non poteva mancare l’omaggio alla santa patrona, anch’essa viterbese, cioè alla giovane eroina santa Rosa, figura caratterizzata da una ferma volontà e da una religiosità intensa, fatta di dedizione e di rinunce. Ben impiantati risultano anche alcuni bozzetti teatrali, che furono portati sulla scena con buon successo di pubblico. In sintesi si può dire che la sua esperienza poetica rappresenti l’esempio più evidente di quel tipo di letteratura dialettale che il Croce definì “riflessa”, cioè derivante dall’ottica borghese, che porta l’autore a scegliere a portavoce dei suoi componimenti umoristici la figura arguta e ti- pizzata del “villano”, Meco Torso, dialettofono seminalfabeta, nel solco di un genere letterario di ascendenza medievale2.

1 La bella Galiana ed altre poesie in dialetto viterbese, Viterbo 1961, Quatrini (II ediz., Viterbo, di- cembre 1971, Tip. S. Leonardo; ristampa a c. di F. Turchetti, Viterbo 1980, Tip. Agnesotti).

Sulla leggenda di Galiana, vd. M.L. Polidori - A. Tiburli, La bella Galiana fra mito e leggenda, a Viterbo e a Toledo, in “Biblioteca e Società”, VI, 1-4, 1984, pp. 48-54.

2Vd. Le confidenze di Meco Torso (in: La bella Galiana, cit., pp. 159-164); e dello stesso contenuto, Il lamento del villano e Ancora il lamento del villano (ibid., pp. 122-124). Tuttavia, nelle sue opere (bozzetti, monologhi, favole, aneddoti storici, satire politiche) è scoperto il riecheggiamento dei mo- delli romaneschi, come opportunamente rileva P. D’Achille: “A Viterbo all’inizio del Novecento



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Ben diverso risulta il profilo di Emilio Maggini (Viterbo 1900-1986), agricoltore, viterbese di Pianoscarano, il quartiere più popolare della città (con circa 1.200 ab.).

Piccolo possidente, con un modesto grado di istruzione (era in possesso del titolo di istruzione elementare), per tutta la vita coltivò la piccola proprietà paterna, dalla quale con solerte fatica seppe ricavare i mezzi di sostentamento per la sua non esigua fami- glia, vivendo in condizione di certo non agiata, ma dignitosa3. Una volta pensionato, poté dedicarsi con continuità all’esercizio della poesia, affermandosi come capofila del gruppo di poeti raccolti nel sodalizio di Tuscia dialettale, accanto a Edilio Meca- rini, Ezio Urbani ed altri ancora4.

l’influsso della poesia romanesca (soprattutto di Pascarella e di Trilussa) è evidentissima nella pro- duzione di Enrico Canevari” (“Il Lazio”, in: Dialetti italiani. Storia struttura uso, a c. di M. Corte- lazzo, C. Marcato, N. De Blasi, G. P. Clivio, Torino 2002, UTET, pp. 547-548).

3 Non sono molti i riferimenti autobiografici che si possono desumere dalle opere di Maggini (vd.

Tanto pi cumincià, in Viterbo cu le scarpe grosse, Viterbo 1972, Quatrini, pp. 11-13). La sua esistenza non è segnata da eventi “eccezionali” e, se si esclude il servizio di leva (che espletò a 18 anni nel 1918 a Volterra), si svolse interamente nella sua città natale. Se ne allontanò raramente per parteci- pare o a pellegrinaggi presso vari santuari o, da pensionato, a viaggi con il sodalizio Tuscia dialet- tale per incontri con associazioni omologhe di altre regioni. Dal matrimonio con Rosa Agostini (20 settembre 1924) gli nacquero cinque figli: Bartolomeo, Giovanni, Marcello, Gemma e Giacomo, che divenne sacerdote giuseppino. La piccola proprietà (circa 4 ettari), nella quale per decenni im- pegnò fatica ed energie, si trova in località San Nicolao: dapprima vi coltivò cereali, misti ad olivi e viti poi, a partire dagli anni ‛50, passò all’orticoltura. Gestì nel secondo dopoguerra una rivendita di vino al minuto di produzione propria (‘L campanone di Viterbo aricconta. Storia dil passato di gojaria vitorbese, Viterbo 1973, Quatrini, p. 83; La cuccagna, Viterbo 1977, Quatrini, p. 12). Come agricoltore gli fu assegnato nel 1954 il primo premio provinciale (con medaglia d’oro) per il pro- gresso economico e sociale (agricoltura innovativa con la bonifica del terreno e l’irrigazione a piog- gia) e nel 1973 un premio speciale per fedeltà alla terra.

Pur essendo iscritto ai Coltivatori Diretti e alla Democrazia Cristiana nella sezione di Pianoscarano, limitata fu la sua partecipazione alle iniziative politiche. Al contrario intensa fu la vita religiosa: ter- ziario francescano, presidente dell’Unione uomini d’Azione Cattolica nella parrocchia S. Andrea di Pianoscarano; fu membro della Confraternita del Sacramento nella stessa parrocchia ed ultimo se- gretario della confraternita del Gonfalone; infine prese parte assiduamente all’Opera dei ritiri con riu- nioni mensili nella chiesa di S. Ignazio.

La sua formazione culturale, se così si può dire, si basò essenzialmente sulla lettura del quotidiano

“L’Avvenire”, di riviste quali “Famiglia Cristiana”, “Il coltivatore”, “Vita Giuseppina”, fogli e no- tiziari di poesia, periodici di carattere religioso. Tra gli autori preferiti che rileggeva vanno annove- rati I miserabili, Guerra e pace, i romanzi di Alexandre Dumas, I Promessi Sposi, raccolte di poesie.

Era anche musicista dilettante: per accompagnare le canzoni in occasione di festicciole e di serenate, suonava il mandolino o la mandola (‘L Campanone, cit., p. 44). Per le notizie biografiche riportate in questa nota siamo debitori alla cortesia del figlio di Emilio Maggini, Giovanni, e del nipote An- gelo. Per i riconoscimenti ottenuti ed i giudizi espressi dalla stampa, vd. le pp. 5-6 della raccolta La Cuccagna, cit.

4 Vd. ‘L capagno. Antologia di poesie in dialetto viterbese, Viterbo 1983, Edizioni Cultura (le poe- sie di Maggini sono a pp. 81-93). La brevissima scheda di presentazione, sebbene ampollosa, coglie comunque l’essenza della sua ispirazione: “voce di popolo, poesia con mitria e porpora; agreste,

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Come poeta fu autodidatta, alieno da imitazioni pedisseque, estraneo a riecheg- giamenti di scuola5. In una recente antologia è stato definito il “poeta viterbese per ec- cellenza”, non tanto perché è stato capace di trovare una sua tonalità contenuta, intrisa di sapida ironia, e una malinconica vena evocativa, ma quanto perché è riuscito ad ele- vare la parlata natia ad un buon livello di espressività, senza rifarsi ai modelli domi- nanti del romanesco o lasciarsi condizionare da quelli, antichi e moderni, della poesia in lingua6. Egli affinò via via il suo stile, imprimendo ai versi una cadenza pacata, fino ad acquisire, attraverso l’assiduo esercizio, decoro espressivo e dignità formale, senza cedere alle artificiosità, rifuggendo da sovraccarichi esornativi.

Nella sua poesia è possibile cogliere una naïveté spontanea, senza forzature, una sensibilità ritmica, che si traduce in delicata musicalità; d’altro canto, era per lui abi- tuale in ogni situazione l’impiego idiomatico della parlata materna, che fluiva dalle sue labbra senza bisogno di pescare con fatica formulazioni adatte dal fondo della me- moria.

Maggini deve la sua notorietà ad una produzione che, pur non essendo copiosa - comprende tre raccolte di poesie e tre volumetti in prosa - si impone per un carattere etico-religioso sentito, non superficiale, che appare legato più che ai riti ai valori, per- vaso di una umanità profonda. Non condizionato da correnti, mode o modelli, il suo percorso artistico appare delineato a cominciare dalle prime prove fino a raggiungere

una scarpetta di Cenerentola, non scarpa grossa. Liutaio e fabbro nella fucina del dialetto viterbese”

(ibid., p. 81).

Sulla semplicità e sul realismo insiste invece il giudizio espresso da Mario Menghini: “Come in ogni poeta in lui la natura si umanizza, prende cioè i dolori, gli sforzi dell’uomo [...] a volte secca, incisiva questa poesia di Maggini mira dritto al segno per la via più breve, con mezzi espressivi di edificante semplicità. Non arzigogoli né frasi ad effetto, ma toni lirico-realistici sostanziano questi componimenti dialettali del buon Maggini che colora di note nuove la vita viterbese, che egli passa sottilmente in rassegna verberata nei suoi aspetti più caratteristici con tono semplice e penetrante”

(‘Gni mese ‛n canto: verse viterbese. Collana “Tuscia dialettale”, n° 1, Viterbo, s.a., Tipolitografia A. Quatrini & figli, p. 7).

5 Si potrebbero sollevare dubbi al riguardo e riconoscere un preciso imput “colto” o letterario nella composizione della raccolta ‘Gni mese ‘n canto. Infatti Maggini potrebbe aver tratto ispirazione dai cicli scultorei che adornano i portali delle chiese medievali o dal topos letterario delle “corone dei mesi” in versione lirico-didascalica o parodistica della poesia medievale (si pensi a Folgóre da San Gemignano e alla replica per contrari di Cenne della Chitarra). Pur non potendola escludere, tale ipo- tesi appare remota e, comunque, l’analogia è soltanto apparente, perché l’argomento è svolto dal vi- terbese in tutt’altra maniera. Maggini, infatti, può aver rielaborato in maniera personale, mediante amplificazione, gli spunti dei piccoli componimenti sui mesi che compaiono nei libri di lettura delle scuole elementari. A commento dei componimenti sui singoli mesi l’autore riporta a piè di pagina alcuni proverbi popolari.

6 S. Graziotti – V. Luciani, La regione invisibile. Poesia e dialetto nel Lazio. Tuscia meridionale e Campagna romana nord-occidentale. Presentazione di U. Vignuzzi, Roma 2005, Edizioni Cofine.

Su Maggini, vd. la breve scheda critica a p. 23, la scheda biografica a p. 47 e le poesie (due com- ponimenti), pp. 48-49.

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forme più mature7. Non bisogna dimenticare, accanto alla sua attività di poeta, l’im- pegno nel “sociale”: per ventitre anni fu ininterrottamente membro del consiglio di amministrazione della Cassa rurale ed artigiana di Viterbo, subentrando nel 1958 in- sieme con un gruppo dirigente rinnovato, per fronteggiare un momento critico che l’Istituto di credito stava attraversando, e vi rimase fino al 1982, stimato per l’attac- camento, lo scrupolo, l’equilibrio e la rettitudine morale, quando decise, per motivi di salute, di dimettersi per cedere ad altri il posto di amministratore8.

Procedendo in maniera sommaria all’esame contenutistico, cioè alla individua- zione dei principali temi ispiratori, possiamo rintracciare un primo filone nelle poesie di occasione, composte per festeggiare anniversari nell’ambito familiare o nella cerchia di amici, oppure per celebrare ricorrenze pubbliche. Esempi indicativi di questa se- zione sono dati dal componimento “Per il Cinquantesimo della Cassa rurale e arti- giana”, che egli declamò durante la cerimonia di celebrazione dell’evento9; o anche dalla dedica “A sua maestà Gustavo VI Adolfo di Svezia”, con la quale apre una rac- colta e che ebbe il plauso del monarca, archeologo e cittadino onorario di Viterbo10. Per Maggini, che non amava perdersi in parole inutili, la poesia assumeva anche una fun- zione strumentale: ad essa egli assegnava il compito di comunicare con efficacia una riflessione o un sentimento, di esprimere i suoi pensieri in circostanze particolari, come quelle anzidette.

Non mancano, anzi sono numerosi, i componimenti nei quali sono rievocati con delicatezza e liricità, sul filo della memoria, episodi autobiografici che si rifanno alla prima infanzia, con i suoi giochi e il suo repertorio di filastrocche, e ripercorrono via via momenti salienti delle esperienze individuali, dalla spensieratezza degli anni gio- vanili, con l’innamoramento e le serenate, a quelli della maturità responsabile, segnati dalla fatica del lavoro assiduo della terra, nel trascorrere ciclico delle stagioni. Oltre che provetto agricoltore, era un attento osservatore dei fenomeni naturali: grazie alla sua

7 È autore di varie raccolte, tra le quali, limitandoci a segnalare soltanto quelle in dialetto, si anno- verano: Viterbo al segno della Rosa. Poesie viterbesi, Viterbo 1970, Quatrini; ‘Gni mese ‘n canto:

verse viterbese, Collana “Tuscia dialettale”, n° 1, Viterbo, s.a., Tipolitografia A. Quatrini & figli; ‘Gni tempo ha la su ‛mpronta, in edizione postuma, Viterbo 1988, Quatrini; e tre libri di prose: Viterbo cu le scarpe grosse. Gojaria vitorbese. Con un ricordo e appunti del sac. don Pietro Schiena, Vi- terbo 1972, Quatrini; ‘L campanone di Viterbo aricconta. Storia dil passato di gojaria vitorbese, Vi- terbo 1973, Quatrini; La cuccagna, Viterbo 1977, Quatrini. Le sue poesie sono presenti anche in raccolte antologiche: Cinque poeti viterbesi (Viterbo 1975, Tip. Quatrini, pp. 13-28); ‘L Capagno, cit., con 12 poesie; La fuscella. Antologia di poesie dialettali viterbesi, Viterbo 1999, Associazione Tuscia dialettale, pp. 305-318.

8 L. A. Calandrelli, Una banca, una storia (da quarantacinque lire a settemiliardi 218.218.165 lire), Edizioni Cassa rurale ed artigiana di Viterbo, Viterbo 1986, Tip. Grazini e Mecarini, pp. 58, 69, 73, 82, 86, 92, 96, 100.

9 In L. A. Calandrelli, Una banca, una storia, cit., pp. 67-68; il componimento è ripubblicato in ‛Gni tempo ha la su ‘mpronta, cit., pp. 56-57, con data: 9 aprile 1961.

10‘L campanone di Viterbo aricconta, cit., pp. 9-11.

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perizia, fornì informazioni preziose nel corso di un’indagine etnolinguistica svolta a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso sulla terminologia della viticoltura11. Il suo vasto ed approfondito patrimonio di conoscenze tecniche sui cicli ergologici – in particolare di canapicoltura e orticoltura - era frutto dell’esperienza diretta e perso- nale, non appresa sui libri, ma accumulata grazie al lavoro quotidiano di decenni. Il suo amore per la terra affiorava nel corso di ripetute conversazioni, ogni volta che riteneva utile approfondire un argomento con passione e competenza. Inoltre, da questa visione complessiva del reale il suo animo sensibile era capace di trarre spunti didascalici e suggestioni per le sue poesie, di percepire e riesprimere le sensazioni della natura e il senso misterioso della vita. Il lettore contemporaneo è fatto così partecipe del ritmo del- l’esistenza di generazioni passate, in cui alla fatica quotidiana e ai momenti di serenità si alternano inevitabilmente le lacerazioni dei lutti familiari e i traumi provocati dalla guerra distruttrice12. Nei suoi libri troviamo rispecchiata naturalmente la sua mentalità contadina, forse un po’ chiusa, aliena dal consumismo, attenta ad evitare lo spreco inu- tile: appaiono sottolineati più volte i valori legati alla saggia gestione delle risorse, la sobrietà, l’oculatezza, la parsimonia, la virtù del risparmio.

Grazie a questa semplicità e a questa aderenza, anche linguistica, alla concreta re- altà, che egli seppe riproporre filtrata dalla sua pregnante umanità, ottenne un meritato successo di ascolto nelle letture pubbliche delle sue poesie effettuate in varie occa- sioni (nelle scuole, nelle sedi delle associazioni culturali, nelle radio locali ecc.). In- somma, è comprensibile che Maggini venga generalmente riconosciuto come il portavoce, attraverso i suoi scritti, dell’autentica tradizione locale, uno dei maggiori in- terpreti dell’anima viterbese.

Non meno interessante risulta la produzione in prosa, larga parte della quale offre un ampio affresco ambientale del quartiere popolare di Pianoscarano come si presen- tava nel primo Novecento, grazie alla rappresentazione realistica di scene della vita quotidiana, alla caratterizzazione empatica degli umili abitanti. Dallo spazio angusto dei vicoli medievali, costellati di laboriose botteghe artigiane, risonanti di voci e di ri- chiami, la vista si allarga allo spazio sociale della piazza: attraverso le porte civiche, esce per le cave etrusche sulla profondità della campagna.

In agili bozzetti viene presentato al lettore un caleidoscopio di tipi umani semplici e di personalità originali, dalla battuta pronta e arguta, protagonisti di avventure pica-

11 F. Petroselli, La vite. Il lessico del vignaiolo nelle parlate della Tuscia viterbese, I, Romanica Go- thoburgensia XV, Göteborg 1974; II, Il ciclo colturale, Romanica Gothoburgensia XXI, Göteborg 1983.

12 Per una sommaria informazione sui ripetuti bombardamenti cui Viterbo fu sottoposta e sulle di- struzioni apportate si possono consultare, ad integrazione della testimonianza di Maggini, S. Vi- smara, “Cara Viterbo” Aspetti, avvenimenti e personaggi della Tuscia dal 1945 al 1985, Viterbo 1985, Union Printing, pp. 11-18 (Ricordi degli anni terribili) e B. Barbini - A. Carosi, Viterbo e la Tuscia dall’istituzione della provincia al decentramento regionale (1927-1970), Viterbo 1988, Stab.

Litotipografico Agnesotti, pp. 98 sgg.

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resche, di burle sapide, di giochi di destrezza, di sfide ed epiche gare potatorie, di epi- sodi fissati nella memoria collettiva fino ad assumere una valenza quasi di emblema13. Così, accanto ad umili operai, dediti ai mestieri tradizionali più svariati - come funai, canapicoltori, conciatori di pelli - fanno la loro apparizione raccoglitori di erbe spontanee, venditori ambulanti e rigattieri, osti e muratori, ciabattini e sarti, guaritrici e mendicanti, negozianti e sensali, frati questuanti e ladruncoli, guardie comunali e nobili decaduti. In questa esistenza intessuta di lunghe giornate di lavoro, interrotta soltanto dalla pausa domenicale, risaltano le grandi festività religiose celebrate spesso con processioni, fiere di merci e bestiame, merende in campagna. Notevole spazio è fatto alla descrizione puntuale di usanze trascorse: l’albero della cuccagna, la scam- panata, le infiorate, le serenate, la festa di mezza estate; cui viene ad aggiungersi il carnevale d’un tempo, con maschere spontanee, satire e balli in piazza, manifestazione collettiva non ancora commercializzata14. Né mancano, all’interno dei componimenti, interessanti allusioni a credenze, fino a tempi recenti diffuse tra la popolazione, con- cernenti esseri fantastici, anime dei trapassati, licantropi, streghe, malocchio15.

Un posto di rilievo è riservato allo spettacolare trasporto della macchina di santa Rosa, momento corale della vita cittadina, di cui viene enfatizzato il ruolo di simbolo

13 Nel presentare la raccolta La cuccagna (p. 7), Maggini scriveva: “A differenza di questi più illu- stri, i nostri personaggi hanno infatti vissuto e lavorato con umiltà silenziosa; ma nella loro ingenuità furono anch’essi protagonisti della loro epoca e si può dire che il loro nome corse sulla bocca di tutti all’interno della comunità paesana, allora racchiusa nella cerchia delle mura castellane. Erano que- sti gli interpreti estrosi di quell’inconfondibile inoffensiva “gojaria”, non disonorevole o cattiva ma bonaria ed arguta, fonte di riso schietto, a volte – occorre riconoscerlo – inventrice pure di satire pun- genti e scherzi “pesanti”, oppure espressione prudente di proteste rassegnate”. Numerosi episodi sono rimasti famosi, divenuti proverbiali, il cui ricordo è tramandato per mezzo di aneddoti all’in- terno della comunità: invidia e vendette, nozze, funerali, malattie, ubriacature solenni, scorpacciate, satire e scherzi memorabili. Questi personaggi tipici compaiono in quasi tutte le raccolte: una car- rellata è presentata vivacemente nella sezione “Discrizione di gente arinomata” di ‘L campanone di Viterbo aricconta, cit., pp. 64-96 e in Viterbo cu le scarpe grosse, cit., pp. 19-20 e 23-24.

14 Nelle raccolte sono descritti: la cuccagna (La cuccagna, cit., pp. 10-11); la scampanata (ibid., pp.

25-27), le paure (ibid., p. 63), la festa di mezza estate (ibid., p. 22); le serenate (‘L Campanone, cit., pp. 44-45; Viterbo cu le scarpe grosse, cit., pp. 46-47); la festa di S. Antonio (‘L Campanone, cit., pp. 61-62), il carnevale (Viterbo cu le scarpe grosse, cit., pp. 49-50), la Pasqua (Viterbo cu le scarpe grosse, cit., p. 32); i giochi tradizionali (ibid., pp. 27-28); le confraternite (‘L Campanone, cit., pp.

51-54; i mestieri tradizionali: es. i molini (‘L Campanone, cit., pp. 77-78); i matrimoni (La cucca- gna, cit., pp. 35-37); i rapporti con i genitori (Viterbo al segno della rosa, cit., pp. 83-86). Non man- cano cenni ad antiche leggende come quella dei Sette Dormienti (La cuccagna, cit., pp. 72-74), nota anche in altri centri della provincia (ad es. Orte, Capranica) e già presente nel Corano e nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono.

15Vd. cenni sul licantropo (Viterbo cu le scarpe grosse, cit., pp. 51-52); sulle fatture e i malefici (ibid., pp. 54-55); sulle espressioni protettive o apotropaiche (‘L campanone, cit., pp. 55-56). Per un primo approccio di carattere storico con il fenomeno delle streghe nella nostra provincia, vd. il vo- lumetto curato da G. Breccola e M. Lozzi, Il paese delle streghe. Con un inedito processo per stre- goneria nella Tuscia viterbese, Latera 2006, Annulli editore.

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identitario16, mentre, sul ritmo della ballata, utilizzando l’immagine della campana maggiore del palazzo comunale, sono sintetizzati momenti drammatici della vita cit- tadina nel corso del secolo XX17.

Senza voler approfondire ancora, mettiamo in evidenza lo scoperto intento dida- scalico e sociale manifestato con il proposito di trasmettere il patrimonio ereditario di valori e operare da trait d’union ideale con le giovani generazioni in una continuità sto- rica e culturale, senza soluzioni di continuità. Altro dato non secondario appare la con- sapevolezza di salvaguardare il dialetto stesso in un periodo di veloci trasformazioni.

Così nella “premessa” a una sua raccolta18, Maggini ribadisce in maniera esplicita que- sta sua opzione programmatica di scongiurare una perdita irreparabile:

“Avrei voluto riprodurre i suoni della parlata tradizionale viterbese, senza frammi- schiarvi elementi del romanesco sempre più invadente (troppo spesso composizioni con- trabbandate per viterbesi non sono altro che un ridicolo guazzabuglio di forme ibride).

Ho tenuto soprattutto a riprodurre le forme grammaticali in uso a Viterbo quando ancora la città non aveva perduto la sua fisionomia dialettale per effetto degli sconvolgimenti sociali e culturali derivati dalle traversie belliche e civili della prima metà del secolo. Mi sono sforzato di rispettare una certa coerenza nell’uso delle forme, quindi.”

La dichiarata fedeltà al modello dialettale avviene anche a costo di compromet- tere la stessa riuscita poetica, se ancora dichiara19:

“Mi sono sforzato di esprimermi con i suoni della mia parlata nativa, anche a ri- schio di compromettere la limpidezza del verso e la sua eleganza ritmica. D’accordo,

16 Vd. la prosa La machena de S. Rosa, pp. 58-62, in La Cuccagna (ristampato in: ‘Gni tempo ha la su’ ‘mpronta, cit., pp. 56-60) e la poesia con lo stesso titolo (Viterbo al segno della rosa, cit., p.13).

Sul culto della patrona ci limitiamo a rinviare al lavoro più recente: S. Cappelli (a c. di), Santa Rosa:

tradizione e culto. Atti della giornata di studio 25 settembre 1998, Dipartimento di storia e culture del testo e del documento, Università degli studi della Tuscia, Viterbo 1999, Serie prima “Studi e testi”, numero 10, Manziana, Vecchiarelli ed.

17 Ne La ballata dil campanone (‘L Campanone di Viterbo aricconta, cit., pp. 111-116) sono rievo- cate, assumendo a voce della città e della sua aspirazione alla libertà il campanone del Comune, le vicende più drammatiche della storia viterbese del XX secolo, a cominciare dalla resistenza popo- lare opposta all’assalto delle squadre fasciste per giungere al secondo dopoguerra, quando i Viter- besi, al posto del vecchio campanone con il bronzo del quale erano stati colati cannoni, decisero di farne fondere un altro nuovo. Sull’uccisione di alcuni antifascisti succinte risultano le notizie rife- rite in “Quaderni della resistenza laziale” n° 3 (a c. di B. Di Porto, Roma 1977, Regione Lazio, p.

13, nota 13): Tra i caduti antifascisti si ricordano “ [...] Antonio Tavani, fratello di Luigi, colpito da tre sicari la sera del 9 luglio 1922. In una sparatoria cadde anche un viaggiatore inglese, che passava per Viterbo in automobile: era il conte Jaromir Czernin”.

In effetti Maggini non solo era consapevole dell’importanza delle campane come manufatti artistici, ma ne intuiva anche l’importanza religiosa e civile nell’ambito della comunità. Infatti, nella rac- colta ‘L Campanone di Viterbo aricconta (cit., pp.15-35), provò ad abbozzare un piccolo corpus di campane della sua città, con le relative iscrizioni e favolette onomatopeiche (ibid., pp. 21, 25).

18 Viterbo al segno della rosa, cit., p. 7.

19 Ibid., p. 8.

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questa nostra parlata sembra poco adatta per raffigurazioni gentili, per astrazioni e ra- gionamenti elevati; ma basta per dire l’essenziale della nostra esperienza umana. Mo- dificarla e violentarla non è leale e preferisco rispettarla come ce l’hanno tramandata i padri”.

Dunque, la scelta linguistica operata non mira a conferire alle composizioni una superficiale patina paesana e ad esprimere una compiaciuta scelta formale, dettata da motivi campanilistici. Più seriamente, il dialetto viene considerato dall’autore veicolo privilegiato insostituibile per trasmettere con efficacia ai membri della comunità, in un’ottica moderatamente conservatrice ma non retriva, i princìpi portanti di un’esi- stenza dedita al lavoro, alimentata da un profondo senso religioso e morale, in cui i rap- porti sociali sono ispirati a sentimenti di rispetto reciproco, solidarietà e tolleranza, corroborati dal senso della dignità e dell’onore.

Scrivendo del dialetto usato in opere letterarie contemporanee, Nicola De Blasi afferma che “si può insomma trattare un testo come una fonte di informazioni utili, che il dialettologo o lo storico dei dialetti saprà mettere a frutto”20. Non esitiamo ad af- fermare che, in questo senso, Maggini rappresenta una fonte insostituibile per la co- noscenza e lo studio della varietà linguistica, utilizzata dai ceti popolari almeno fino alla metà del XX secolo, nella forma che appare ancora sostanzialmente immune da vi- stosi influssi a distanza del romanesco moderno.

Occorre precisare che preziosi apporti in tal senso ci vengono non solo dagli scritti, ma anche dalle registrazioni magnetofoniche effettuate su vari argomenti. Per questo motivo ci è parso opportuno dare spazio nel volume, in larga parte dedicato al lessico dialettale21, anche ad una serie di documenti etnolinguistici e foklorici inediti, sempre comunicatici da Maggini, notevoli per la loro significatività, a cominciare da quattro testi narrativi composti intorno agli anni Ottanta del secolo scorso. Il primo è la traduzione in dialetto di una novella del Boccaccio, la nona della prima giornata del Decamerone. Il testo che riproduciamo costituisce inoltre un utile termine di confronto con una precedente traduzione viterbese22, effettuata per corrispondenza un secolo

20 N. De Blasi, “L’analisi dei testi nella storia linguistica”, in Dialetti italiani, cit., pp. 83-96.

21 Per uno studio lessicale, disponiamo soltanto di due pubblicazioni precedenti alla nostra, per le quali si può parlare piuttosto di dizionarietti o glossari amatoriali, approssimativi (specie il secondo) e spesso limitati alla registrazione della voce dialettale con accanto la corrispondente forma in lin- gua: E. Urbani, Il vernacolo viterbese. Glossario viterbese-italiano, italiano-viterbese con note di grammatica e accenni di fonetica, morfologia e sintassi, Viterbo 1999, Sette Città; V. Galeotti- F.

Nappo, Dizionario italiano-viterbese, viterbese-italiano, Viterbo 2005, Sette Città.

22 Nella seconda metà dell’Ottocento, gli studiosi italiani cominciarono a rivolgere la loro attenzione alla lingua parlata, per il cui studio era indispensabile avere a disposizione campioni di base auten- tici dell’uso orale. Decisero quindi di sollecitare, con la collaborazione di intellettuali o cultori lo- cali, la traduzione di brani letterari nei rispettivi dialetti che ne permettessero la comparazione. Nel 1875 Giovanni Papanti (1830-1893) si dedicò alla prima raccolta sistematica in tutta Italia di oltre 700 campioni di differenti dialetti (651 di dialetti italiani e 52 di dialetti alloglotti), utilizzando come

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prima, che assieme a quelle di altri quattro centri della nostra provincia, compare nella raccolta pubblicata da Giovanni Papanti, allo scopo di riunire campioni autentici del- l’uso orale, in base ai quali procedere ad una prima analisi comparativa dei dialetti ita- liani, anche se per la sua brevità e per lo stile la novelletta boccaccesca non era certo il testo più adatto23.

Seguono altri due testi, più estesi ed articolati questi: innanzi tutto la versione in dialetto della Parabola del figliol prodigo (dove, per aggiungere maggior drammaticità alla narrazione, egli arricchisce di toni realistici il dialogo del padre con il figlio mag-

testo di base la “Novella del re di Cipri” del Decamerone, la nona della prima giornata (I parlari ita- liani in Certaldo alla festa del V centenario di messer Giovanni Boccacci, Livorno 1875). Malgrado limiti e difetti, la raccolta offre tuttora un utile quadro complessivo della situazione linguistica del- l’epoca. Per la provincia di Viterbo, oltre a quella del capoluogo, furono raccolte le versioni di altri quattro centri, precisamente: Acquapendente, Grotte di Castro, San Lorenzo Nuovo, Ronciglione. Sui limiti della raccolta di testi dialettali per corrispondenza, vd. le osservazioni di V. Matranga, “Come si fa un’indagine dialettologica sul campo”, in Dialetti italiani, cit., p. 64: “Oggi, un’inchiesta fatta per corrispondenza, attraverso la quale si possono raccogliere soltanto informazioni su un dialetto scritto da chi è in grado di attivare quel complesso di operazioni che permettano di adattare alle norme proprie della scrittura un codice tipicamente orale, e per di più calcato su forme linguistiche statiche e/o prestigiose - come nel caso della lingua evangelica o delle novelle boccaccesche -, non è più praticabile per gli interessi della dialettologia moderna, orientati a perseguire le caratteristiche proprie del parlato e le dinamiche tipiche della comunicazione orale”.

23 Altre due versioni meno note della novella, rispettivamente nel dialetto di Soriano nel Cimino e in quello canepinese risalenti all’inizio del Novecento, si devono all’iniziativa di un altro eminente studioso, Ernesto Monaci (1839 – 1918), che fu ordinario all’Università di Roma, autore di autore- voli studi in vari campi della filologia romanza, soprattutto dell’italianistica, cofondatore nel 1901 della Società Filologica Romana. Dapprima prese l’iniziativa di pubblicare una serie di manualetti destinati alla scuola, per facilitare l’apprendimento della lingua nazionale a partire dal dialetto. Nel 1903, con una lettera circolare invitò “tutti i maestri della provincia di Roma” a collaborare inviando la versione in dialetto locale della novella del Decamerone, in modo da poter completare la raccolta Papanti almeno per la regione laziale. Per Soriano nel Cimino sappiamo che il segretario comunale e storico locale Achille Ferruzzi (1842-1918) accolse l’invito, pubblicando poi la traduzione assieme al testo della lettera di Monaci in un raro opuscolo: Dischi fonografici, Viterbo, Tip. Cionfi, 1907.

Copia della traduzione nel dialetto di Canepina, redatta presumibilmente nello stesso periodo, è stata da noi edita in L. Cimarra - F. Petroselli, Contributo alla conoscenza del dialetto di Canepina con un saggio introduttivo sulle parlate della Tuscia, Civita Castellana 2008, Tip. Punto Stampa, pp.

180-184. I dati relativi alla raccolta, nonostante alcune deprecabili (e forse irrimediabili) sottrazioni o perdite, sono ora consultabili nell’Archivio della Società Filologica Romana, attualmente conser- vato presso la Biblioteca Angelo Monteverdi (Centro Interdipartimentale di Servizi per gli studi fi- lologici, linguistici e letterari dell’Università “La Sapienza” di Roma) [vd. Monica Carzolari, a c.

di, Il fondo archivistico Ernesto Monaci (1839-1918) e l’archivio storico della S.F.R. (1901-1959), Roma 2005, Società Filologica Romana, supplemento a Studj Romanzi, I, n.s.: Fondo archivistico E. Monaci, p. 107, n. 492, Ferruzzi Achille (“due lettere, 16 mar. 1907; 15 gen. 1909. Allegati: alla lettera n. 2, “versione della nov. I, 9 del Boccaccio nel dialetto di Soriano al Cimino”); Archivio della Società Filologica Romana, p. 319 (busta 7 - 198. Pubblicazioni) - s.fasc. I “Novella I, 9 del Decameron di Giovanni Boccaccio tradotta nei parlari del Lazio”: corrispondenza e manoscritti, 1903-1904)].

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giore) e inoltre quella dell’episodio della samaritana24. Tuttavia, nel nostro caso, Emi- lio Maggini, non si limita a tradurre, come troppo spesso avviene in occasioni analo- ghe, i testi evangelici pedissequamente alla lettera, quasi in meccanica traslitterazione, ma si sforza di riesprimere in veste idiomatica lo spirito della vicenda, adottando senza forzature il tono popolare, dando prova di notevole sensibilità metalinguistica. Libe- randosi dalla suggestione esercitata dal modello prestigioso, conferisce alla narrazione un andamento naturale tramite il ricorso a particolari realistici, arricchendo il dialogo di espressioni tipiche, interiezioni, cliché, locuzioni fisse25. L’ultimo testo della se- zione, composto sullo schema della tenzone medievale, di cui rimane eco nelle gare dei poeti improvvisatori26, l’acqua e il vino personificati si esprimono con la voce bona- ria e saggia di due popolani che, argomentando in contrasto, ne esaltano le rispettive virtù.

A seguire, presentiamo poi una serie di brevi documenti orali, forniti in maniera spontanea da Maggini nel corso delle conversazioni. Pur avendo inserito le voci in essi contenute nel vocabolario sotto i rispettivi lemmi, abbiamo ritenuto opportuno presen- tarli in una sezione a sé per blocchi omogenei, in quanto utilizzabili per altri tipi di ri- cerche (demoiatria, farmacopea, etnobotanica, e così via). Questi etnotesti liberi27, spesso

24 Più ampio ed articolato di quello boccaccesco risulta il testo evangelico della Parabola del figliol prodigo (Luca 15:11-32), che era già stato adottato nel 1853 da Bernardino Biondelli (1804-1886).

La sua opera fu proseguita da Ugo Pellis (1882-1943), che, nelle sue inchieste sul campo per la rac- colta di materiali per l’Atlante Linguistico Italiano, ne sollecitò dagli informatori la traduzione nel loro dialetto. E, ancora negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, la Discoteca di Stato ne pro- mosse un’ampia raccolta di versioni in tutta l’Italia, anche se sono intuibili i rischi e limiti del pro- cedimento adottato di traduzione dall’italiano letterario in dialetto.

25 Qualche citazione esemplificativa: ricorrono il pron. valtre, i sost. cióco, bbòcche, zzucca che de- signa l’ortaggio svuotato e secco usato come recipiente, ordégne e palazzétto; l’agg. gójjo e il deri- vato ngojjisse; i verbi assomijjà “rassomigliare”, tralassatà e guernà; il tecnicismo: toccà e gguernà li bbèstie; l’inter. guardarònne; le espressioni: annà ffurestièro; annarae a ccattanno; lo lassòrno cóme ddòn Farcuccio; ntanto lo stómmeco li carujjava; è aridutto a li peluce; sto scialacquóne gójjo sènza capòccia; magnòrno a ccrepapanza; carestìa da cane, terribile.

26 Con il termine di tenzone si intende “una serie (due o più) di componimenti che si scambiavano due o più rimatori su un medesimo oggetto del contendere” (Dizionario di linguistica, Torino, Ei- naudi, 1994, s.v.). Sul fenomeno della poesia all’improvviso in generale, vd. G. Kezich, I poeti con- tadini con saggio Cantar l’ottava di M. Agamennone, Roma 1986, Bulzoni editore; per la situazione nella provincia, vd. D. Alessandrini, Le ottave della prigionia, introduz. di A. Ricci, bibliografia di G. De Giovanni, Viterbo 1985, Consorzio delle biblioteche di Viterbo; G. De Giovanni- A. Ricci (a c. di), Ottava rima e improvvisazione popolare, Viterbo 1988, Tip. Quatrini. Per la Tuscia, poesie in ottava rima di argomento agropastorale si possono leggere in: P. Trapè detto Magone, Un fonte in mezzo a un prato. Poesie di un pastore, a c. di R. Cordovani e R. Vincenzoni, Montefiascone 1982, Centro Iniziative Culturali [Grotte di Castro, Tipolit. C. Ceccarelli] (alle pp. 163-169, Contrasto tra padrone e garzone, a. 1882). Più attuali nei contenuti e con spunti di protesta sociale sono le ottave di N. Baldini (poeta contadino), Quando la libertà è troppa, Viterbo 1979, Union Printing.

27 Con il termine tecnico di “etnotesto” si indicano quei “testi orali che rappresentano un’espres- sione autonoma della cultura di una comunità linguistica”, cioè consistenti, come nel caso di Mag- gini, in “ricordi autobiografici, testimonianze di usi e di tradizioni, descrizioni di oggetti e di teniche

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di tono autobiografico, in genere di limitata estensione, sono stati da noi suddivisi, per comodità del lettore, in tre sottogruppi secondo l’argomento. Lungi dal rappresentare mere curiosità, forniscono preziose informazioni sul modo di vivere e di pensare: in altri termini, esprimono aspetti significativi della cultura (in senso antropologogico) indivi- duale di Maggini e, per suo tramite, di quella della comunità di appartenenza.

Nella società preindustriale di matrice agropastorale, nella quale vigeva, oltre alla mancanza di servizi, un atteggiamento di diffidenza verso la scienza medica ufficiale, assumeva notevole valore la medicina popolare. Erano le mammane ad assistere le ge- stanti durante il parto; le guaritrici o i santoni, in possesso di un patrimonio di rimedi, praticavano semplici interventi, usavano preparati naturali (pozioni, polveri, decotti, eluttuari, sciroppi). Si trattava di una conoscenza empirica, intrisa di magia, che deve essere messa in rapporto alla situazione, oltre che socio-economica, sanitaria del quar- tiere e dei ceti popolari in genere28. I tipi di intervento riguardavano innanzi tutto ma- lori, affezioni leggere e temporanee, ma potevano essere applicati anche a forme morbose più gravi come infiammazioni, otite, porri, lussazioni, odontalgia, infezioni, ferite, itterizia, reumatismo, polmonite, dolor di ventre, raffreddore, rachitismo, orec- chioni, bronchite, ecc. Oltre alle erbe medicinali, compaiono utilizzate anche altre so- stanze come ragnatele, orina, pidocchi29.

ergologiche” (Dizionario di linguistica, cit., pp. 291-292, s.v.). Quindi esso può essere più general- mente inteso con Sabina Canobbio come “produzione spontanea ed autonoma del parlante, espres- sione della sua cultura e quindi della cultura della comunità a cui appartiene”. Nel nostro caso noi utilizziamo “etnotesto” nel senso di “testimonianza sul modo di essere, di vivere, di lavorare”, men- tre consideriamo a parte altri etnotesti costituiti da formalizzati o semi-formalizzati elencati a sé (nel raggruppamento dei documenti folclorici) o immessi nel vocabolario (proverbi, modi di dire, espres- sioni fisse, ecc.). Il concetto è stato approfondito in varie occasioni da Sabina Canobbio (vd. “Al di là della raccolta dialettale: etnotesti e documentazione ergologica nell’ALEPO” in: Atlanti regionali:

aspetti metodologici, linguistici e etnografici, Atti del XV convegno del CSDI 19, Pisa, Pacini 1989:83-111).

28 La situazione igienico-sanitaria dei quartieri popolari di Viterbo, alla fine del XIX secolo ed agli inizi del successivo, non doveva differire da quella degli altri centri minori della Tuscia. Maggini ce la tratteggia brevemente, senza remore o autocensure, in Li guardie del piscio (‘L campanone di Vi- terbo aricconta, cit., pp. 39-41): “A la fine dil secolo vecchio e sul principio del nostro, nun c’erano li commidità chi ci sò adesso. L’acqua a casa ‘n ci ll’iva gnuno, solo quanno pioviva; lu sciacqua- toro pi buttà l’acqua sporca ci nn’ereno pòche; ‘l lococòmmido pure adèra ‘na cosa rara: quarcuno c’iva ‘l butto difòra a la finestra da ‘na parte, attappato a la mejo cu ‘n guperchio di legno, e pi con- fonna quell’odoraccio pi quanno s’affacciavono da la finestra, ci tiniveno ‘l vase di giragne, e tutte l’artre buttaveno giù ‘nvece da la finestra su’ la strada”. Il quadro non è esagerato. A conferma e ad integrazione si può vedere il cap. “I servizi igienici all’inizio del secolo”, in Zibaldone viterbese.

Folklore e vecchie cronache curiosità storiche e arte (a c. di E. Corsi, A. Giannotti, Matus Alemme), Viterbo s.a. [1974?], Quatrini A. & figli, pp. 75-77.

Con informazioni desunte da atti conservati all’Archivio di Stato di Viterbo è lo studio di A. Porretti, Magia, alchimia ed erboristeria in protocolli notarili del XVI secolo, Quaderno n° 5 allegato a “Bi- blioteca e Società”, III, 4, 1981, pp. 20.

29In mancanza di un’opera specifica sulla medicina popolare viterbese, dati parziali e circoscritti ad alcune località della provincia si possono desumere da: AA.VV., I semplici. Rimedi popolari aque-

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A loro volta, credenze e superstizioni occupano nella tradizione locale un campo vastissimo, spesso descritto rapsodicamente da dilettanti, che meriterebbe invece l’at- tenzione dell’antropologo storico. Troviamo citate le streghe (con un’interessante ri- serva sulla loro reale esistenza), accanto ad esseri fantastici e spiriti dei trapassati; né mancano riferimenti ad altri temi che in progresso di tempo sono caduti in disuso: dalla modalità seguita nella imposizione di nomi di battesimo, alle previsioni meteorologi- che, che assumevano una rilevanza particolare per i pastori e gli agricoltori, dato che svolgevano gran parte dei loro lavori in aperta campagna; alle cautele da adottare du- rante la gestazione e la gravidanza, fase critica nella vita di una donna, stante l’elevata mortalità infantile e la numerosità dei casi di decesso per puerperio.

Sotto la rubrica ‘Usanze e consuetudini’ è stata raggruppata una eterogeneità di testi, che riguardano “le opere e i giorni”. Appare evidenziato il rilievo economico rap- presentato, soprattutto nella alimentazione dei ceti più poveri, dalla raccolta di erbe spontanee eduli accanto a bacche, funghi ecc., dieta che veniva integrata con la con- sumazione di rane, granchi, gamberi e pesci catturati con la pesca di frodo nei ruscelli, nonché di uccelli e piccoli animali che venivano presi con trappole e lacci. Si aggiunge poi un inventario di altri fenomeni: dalla religiosità popolare e dalle feste, un tempo molto più frequenti nel corso dell’anno, pause benvenute, che interrompevano la fatica del lavoro (ad es. calendimaggio, ferragosto, ottobrata), ai punti nodali del ciclo della vita umana (nascite, matrimoni, morti), ai giochi infantili praticati nelle strade rionali, ai contratti agricoli che regolavano i rapporti di lavoro. Troviamo cenni agli scongiuri, anche per allontanare gli insetti parassiti che minacciavano la vigna o le coltivazioni in genere (tentativi di stornare le forze negative); alle scampanate di dileggio ai vedovi che convolavano a nuove nozze, usanza che evidenzia il peso del controllo sociale; ai pronostici agricoli (per es. dalla forma degli acini o dall’aspetto dei cereali), che rap- presentavano risposte rassicuranti nelle aspettative della famiglia contadina. Un gruppo di testimonianze concerne avvenimenti locali e fatti di vita quotidiana: anzitutto i la-

siani, ricerca coordinata da L. Amici, Comune di Acquapendente, Viterbo 1991, AEMME Grafica;

Ead., Medicina popolare della Teverina, ASSINTEC, Collana di storia, tradizioni, folclore 2, Viterbo 1992, Union Printing; P. M. Guarrera, Il patrimonio etnobotanico del Lazio, Censimento del patri- monio vegetale del Lazio, n° 1, Roma 1994; P. M. Guarrera, G. Forti, S. Marignoli, G. Gelsomini, Piante e tradizione popolare ad Acquapendente, Quaderni del Museo del fiore n° 2, Acquapendente 2004; M. Casaccia - C. Pozzi, Sui nomi dialettali delle specie floristiche spontanee e coltivate. Loro ambiente di diffusione sul territorio comunale di Bolsena e utilizzazioni tradizionali, in “Bollettino di Studi e ricerche”, Bolsena, Biblioteca Comunale di Bolsena, VI, 1991, pp. 123-152; S. Magrini, Infusi, tisane, acqua di rose: tradizione popolare e scienza, in “I riti del fuoco e dell’acqua nel fol- clore religioso, nel lavoro e nella tradizione orale”, (a c. di A. Achilli e D. Bertolini), Roma 2004, EDUP, pp. 257-272 (lavoro incentrato su Bomarzo). Per una subarea umbra, vd. G. M. Nardelli, Cultura e tradizione. Demomedicina nell’Alta Umbria, Provincia di Perugia, Perugia 1987. Come utile termine di confronto rimandiamo al vecchio, ma per certi versi ancora valido, lavoro di Z.

Zanetti, La medicina della nostre donne. Studio folk-lorico premiato dalla Soc. Ital. di Antropolo- gia. La psicologia delle superstizione, lettera del sen. P. Mantegazza, Città di Castello 1892, S. Lapi Tip.-editore (ora disponibile in ristampa a c. di Il Formichiere sas, Sant’Eraclio di Foligno 2007).

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vori agricoli, di cui Maggini aveva esperienza diretta perché coltivatore (vd. ad es. il riferimento alla fertilizzazione del terreno con il letame prezioso che si raccoglieva), come pure i mestieri artigianali: si pensi al prestigio di cui godeva la figura dell’arti- giano, dal momento che svolgeva un ruolo fondamentale in una economia di sussi- stenza e all’interno della comunità (il fabbro produceva o riparava aratri ed altri attrezzi di lavoro; il maniscalco ferrava le bestie, correggendo difetti e malformazioni della zampa o curando lesioni e malattie)30.

Segue una sezione dedicata a diversi prodotti riconducibili a forme del folklore orale. Purtroppo manca per il capoluogo di provincia una raccolta folklorica comples- siva, anche se sono disponibili i risultati di indagini parziali effettuate in un certo nu- mero di centri minori31. Ad aggravare la situazione, si aggiunga la difficoltà di reperire articoli (di qualità variabile) dispersi in quotidiani, bollettini e riviste locali, numeri unici effimeri, manifesti, calendari, pieghevoli stampati in occasione di sagre e feste, ecc.32. I testi folklorici, che Maggini ci ha fornito, fissati dalla tradizione e facenti parte del patrimonio spirituale collettivo, sono stati da noi suddivisi in due sottogruppi, ri- spettivamente afferenti al mondo degli adulti e a quello dell’infanzia. Occorre preci- sare che essi non sono stati da noi raccolti in maniera sistematica, cioè nel corso di una ricerca tematica appositamente strutturata, ma durante libere conversazioni in ma- niera spontanea, sul filo del discorso. Si tratta, dunque, di materiali parziali; tra l’altro c’è da segnalare che sono assenti citazioni di ottave, che si componevano in maniera estemporanea nelle gare di poesia a braccio, tradizione che nella Tuscia, soprattutto nella subarea maremmana, è rimasta vitale fino a tempi recenti.

Stornelli e strambotti costituiscono una categoria di formalizzati relativamente numerosa (97 testi), che Maggini ben ricordava, poiché, essendo suonatore di mando- lino e mandola, aveva fatto parte da giovane di piccoli complessi musicali, che si esi- bivano in occasione di festicciole, serenate, veglioni di carnevale. Questi formalizzati, sicuramente tra i più diffusi e numerosi nella nostra area, un tempo venivano intonati

30 Precise testimonianze sull’utilizzazione del letame come fertilizzante, si possono leggere in F. Pe- troselli, La vite, cit., vol. II, parr. 336-341, pp. 267-277. Per rapidi bozzetti sui vecchi mestieri, vd.

A. Apolito, Viterbo nei suoi mestieri, Viterbo 1997, Banca di Credito Cooperativo.

31Con l’intento di offrire un primo orientamento bibliografico, indichiamo alcune monografie etno- folkloriche che riguardano centri della provincia: C. Nanni, Ischia di Castro: Terra uomini case, Vi- terbo 1979, Edizioni Cultura; S. Cecilioni, Contributo allo studio delle tradizioni popolari di Tuscania, Biblioteca comunale di Tuscania, Comune di Tuscania, Quaderni della Biblioteca comu- nale, num. primo, [Grotte di Castro 1998, Tip. Ceccarelli] (rielaborazione della tesi di laurea). Una ricca raccolta commentata è costituita da: M. Arduini, M. D. Leuzzi, M. G. Palmisciano, Tradizioni orali a Bomarzo. Alcuni repertori di ricerca, Viterbo 1983, Union Printing. (comprende: proverbi, blasoni, wellerismi, chiapparelli); M. Cangani, Vox populi. vox Dei, Centro Ricerche e Studi, Ron- ciglione 1998, Tip. Grafica 2000 (raccolta eterogenea di testi folklorici: proverbi, modi di dire, stor- nelli e canti, filastrocche, aneddoti, cantilene per accompagnare i giochi, ecc.).

32 Q. Galli, Bibliografia della cultura popolare dell’Alto Lazio 1945-2000, Consorzio per la gestione delle biblioteche, Biblioteca di Studi Viterbesi VII, Viterbo 2001 [Tipolit. Quatrini].

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in varie situazioni: accanto agli stornelli, con i quali si esprimevano i sentimenti deli- cati nei confronti della donna, c’erano quelli a dispetto di contenuto ingiurioso e osceno, con i quali si dava sfogo al rancore, quando si subiva un rifiuto o un tradi- mento o quando un rapporto si interrompeva; quelli di lavoro che accompagnavano la dura fatica dei campi (per es. l’olivatura, le mietitura, la vendemmia, la raccolta delle nocciole e delle castagne) oppure l’operazione del bucato nel lavatoio pubblico o sulle rive dei ruscelli, la spannocchiatura durante la veglia nei cascinali, oppure le bevute al- legre all’osteria con sfide tra vari cantori, ed infine più in generale nei momenti di festa33. Insieme ai canti, elenchiamo battute e tiritere contenenti allusioni maliziose, un tempo d’uso piuttosto frequente nella comunicazione quotidiana. Seguono le fila- strocche, con espressioni e testi legati a funzioni fisiologiche, dove spesso non si ri- fugge dalle espressioni drastiche e scatologiche, che all’interno delle classi subalterne non erano ritenute sconvenienti, immorali, come invece avveniva secondo l’ottica pru- riginosa nel ceto della borghesia bempensante. Alcune battute e canzoncine lasciano trasparire più evidenti contenuti socio-politici di tono contestatario o di sommesso scontento34. Potrebbero apparire trascurabili i brevi formalizzati costituiti dai gridi di venditori ambulanti o da testi pubblicitari legati al commercio: essi tuttavia forniscono utili informazioni di tipo socio-antropologico sul rapporto esistente tra categorie al- l’interno della comunità.

Una categoria molto ricca ricorrente nella comunicazione orale all’interno di ogni centro è quella degli indovinelli, che vengono citati con intento didattico e ludico, qui rappresentata da una ventina di esempi. Un tempo erano spesso argomento di vere e proprie gare di acume e di intelligenza anche tra adulti, per es. durante la veglia, se- condo una tradizione millenaria che rimanda alla soluzione di enigmi rituali e, in se- guito, ai raffinati giochi delle corti. Anche in questo caso la formulazione ambigua,

33 A parte le raccolte ottocentesche di F. Nannarelli (Studio comparativo sui canti popolari di Arlena, Roma 1871, Tip. E. Sinimberghi) e di A. Marsiliani (Canti popolari dei dintorni del Lago di Bol- sena, di Orvieto e della campagne del Lazio, ristampa anastatica dell’ediz. di Orvieto 1886, Bolo- gna, Libreria Editrice Forni, 1968), ricordiamo quella di G. Zanazzo, pubblicata nel 1910, nella quale compaiono stornelli di Bomarzo, Capodimonte e Latera (opera ora disponibile nell’ediz. cu- rata da G. Vettori: G. Zanazzo, Canti popolari di Roma e del Lazio, Roma 1977, Newton Compton edd.). Nella seconda metà del secolo scorso sono state edite per varie località della provincia pic- coli corpora di stornelli, strambotti ed ottave. Per Montefiascone: Circolo Arci di Montefiascone (a c. di), Aspetti della poesia popolare a Montefiascone, Viterbo 1979, Union Printing; per Ronci- glione: A. Anzellotti, Lisandrina. Stornelli e rime popolari, Ronciglione, fasc. I s.a. [1991], fasc. II s.a., Tip. Spada; per Valentano: R. Luzi, “Le Valentanese”. Stornelli popolari raccolti a Valentano, Comune di Valentano, 1986 [Empoli, La Toscografica]. Molti stornelli sono presenti nel lavoro di Cecilioni (Contributo, cit., pp. 119-151).

34Una messe di canti politici e di protesta sociale è stata raccolta da chi scrive, in collaborazione di Luigi Cimarra, in una indagine svolta intorno agli anni ‘80 del secolo scorso, soprattutto nel basso viterbese. Tuttavia tra i materiali, rimasti fino ad oggi inediti, figurano anche testi registrati nel ca- poluogo di provincia e risalenti agli anni 1920-22.

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